Il tuo lavorare nel mondo dello spettacolo è stato una molla per realizzare il vostro “sound teatrale”?
Quando ho iniziato a scrivere Crono avevo in mente la realizzazione di un concept album ma non avevo pensato a un recital, a dire il vero non avevo nemmeno pensato all’idea di utilizzare altri cantanti-personaggi. In fase di composizione ho iniziato a immaginare una sceneggiatura, i costumi e perfino una bozza di fotografia a completamento dell’opera. Certamente lavorare all’interno di un teatro influenza pesantemente la mia componente artistica e ha reso più facile questa contaminazione tra musica e recital.
Ho cercato comunque di privilegiare sempre la musica: volevo che la componente visuale e quella recitativa fossero qualcosa di più per Crono e non qualcosa che avrebbe tolto spazio e attenzione verso la musica. Durante i live, a seconda del posto in cui ci troviamo, mi piace inventare nuove “performance visive”: talvolta vengono proiettati video in sincronia con la musica, spesso vengono utilizzati costumi o altri elementi di scena, a volte narratori raccontano la storia tra un brano e l’altro, altre ancora fanno la loro comparsa perfino danze e coreografie … mi piace sperimentare senza dover scegliere una forma definitiva a cui attenermi. Credo sia la forma d’arte più libera che esiste.
E’ facile immaginare un successo della performance live, proprio per gli elementi di coinvolgimento che prevede “Crono”. Ma parliamo del disco: il suono che si fa teatro richiede un ascolto attento e non certo distratto… occorrono ascoltatori “immaginifici”…
E’ uno dei “problemi” (se così vogliamo definirlo) di Crono. E’ impossibile comprendere appieno la storia senza decifrare i testi e tutti i suoi anagrammi, giochi di parole, citazioni e rimandi di cui è intriso. Un lavoro decisamente impossibile: alcuni passaggi contengono elementi così nascosti o addirittura così cifrati che servirebbe il lavoro di un filologo per ricostruirlo! Ho impiegato due anni per scrivere l’intero concept, mi esaltava l’idea di riuscire a creare qualcosa che contenesse dentro di sé infinite chiavi di lettura: è l’ascoltatore che deve dare un significato alle parole e fornire un senso agli eventi descritti.
Mi rendo conto che si tratta di un tipo di ascolto decisamente lontano dagli standard attuali: stiamo perdendo l’abitudine alla lettura dei libri o dei giornali… figuriamoci quella di un ascolto attento e prolungato. Eppure qualcuno custodisce ancora questo “segreto”, la bellissima abitudine di sedersi sul divano e, a luce spenta, ascoltare un’ora di musica lasciandosi travolgere dalle emozioni del suono.
“Sul palcoscenico” del sound teatrale appaiono vari personaggi/cantanti. Si ascoltano rumori, dialoghi… si crea una suspence di effetto, che la musica rafforza. C’è pathos…
I musicisti in questo sono stati davvero straordinari. Sono riusciti a dare una forma musicale al mio … delirio. Hanno colto esattamente lo spirito dell’album, si sono immedesimati nel protagonista e negli altri personaggi e immersi nella storia, dipingendo con la musica le varie scene del concept.
Il momento più bello è stato quando mi sono reso conto che la band non stava più componendo musica ragionando esclusivamente dal punto di vista armonico: nell’istante in cui hanno iniziato a chiedermi di descrivere loro la scena seguente o di leggere i testi che avevo scritto, allora mi sono reso conto che stavamo costruendo insieme un mondo immaginario condiviso. Siamo rimasti tutti molto coinvolti dal progetto, mano a mano che prendeva forma. Mi sono immedesimato spesso in Aryal e ogni volta che arrivavo a comporre un nuovo brano, una nuova scena del concept, era come se fossi nella testa del personaggio che io stesso avevo creato. Decisamente ho proiettato molto della mia personalità – anche da un punto di vista propriamente psicologico – in lui.
(continua QUI)
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