“La torre d’avorio”. La recensione della prima del 26 febbraio 2013.
In scena al Teatro Eliseo fino al 24 marzo.
Il sipario si apre e in scena tutto è immobile. Sembra di vedere un quadro ma, al di là della plasticità, si intuisce, o si dovrebbe intuire, che c’è la tensione della vita. “La torre d’avorio“, al Teatro Eliseo fino al 24 marzo 2013, è una commedia cult di Ronald Harwood che è venuto ad assistere personalmente alla prima romana al Teatro Eliseo e, il giorno prima, ha incontrato i giornalisti.
Tradotta da Masolino d’Amico, vede come regista e co-protagonista Luca Zingaretti, assieme a Massimo de Francovich, entrambi davvero eccezionali. Ottima anche la performance degli altri componenti della compagnia: Peppino Mazzotta (volto noto della fiction del commissario Montalbano, al fianco di Zingaretti), Gianluigi Fogacci, Elena Arvigo, Caterina Gramaglia.
Zingaretti interpreta Steve Arnold, maggiore dell’esercito degli Stati Uniti che, nella Germania liberata, svolge un’indagine di “denazificazione” su personalità che hanno favorito il regime di Hitler, mentre a Norimberga è in corso il processo ai criminali di guerra. La sua attenzione ispettiva è concentrata in particolare su Wilhelm Furtwängler, grandissimo direttore d’orchestra, realmente esistito, della statura di Arturo Toscanini.
Il maggiore Arnold, che non ama la musica, è ruvido, grezzo, aggressivo ed ostile, può apparire antipatico agli occhi degli spettatori ma ha dei valori profondi ed è rimasto sconvolto dai crimini dei nazisti contro gli ebrei, dalla vista dei campi di concentramento.
Per lui tutto è bianco o nero, non ci sono vie di mezzo. Prima della guerra faceva l’assicuratore quindi è abituato agli inganni ed ha un fiuto formidabile a scovare atti truffaldini. Ma qui c’è molto di più in ballo.
Furtwängler ha fatto bene a rimanere al suo posto – per salvaguardare l’arte dalla “nazificazione” – o avrebbe dovuto, nel 1934-35, espatriare per non cedere agli inevitabili compromessi con il regime? Può esistere un “pensiero forte” accanto ad un “potere fortissimo”? E’ questo l’interrogativo che emerge ed a cui il testo non dà risposte, lasciandole agli spettatori.
Il discorso è anche più ampio ed investe il rapporto tra potere ed arte. C’è da chiedersi: è possibile una musica “libera” in un regime così asfissiante come fu quello nazista? E, se non è possibile, sarebbe giusto andarsene e così privare del tutto della musica il popolo oppresso?
Gli attendenti del maggiore (la segretaria e l’aiutante, entrambi melomani) fanno le loro scelte: si schierano per Furtwängler e per l’arte, con la musica che esplode e sovrasta.
Una sottolineatura va fatta sul titolo originale della commedia, “Taking sides” che significa letteralmente “Schierarsi”. Quello individuato per la traduzione italiana da Masolino d’Amico, “La torre d’avorio”, tutto sommato, è sulla stessa lunghezza d’onda.
La locuzione “torre d’avorio” sta a significare una situazione dove gli intellettuali si rinchiudono in attività slegate dagli affari pratici della vita di ogni giorno. Furtwängler credeva di essersi rifugiato nella sua torre d’avorio. Ma era davvero possibile chiudersi nell’orgoglioso isolamento dell’arte senza guardare al di là di essa, a cosa stesse accadendo realmente nella società?
Il secondo tempo di questa commedia – quando il confronto tra il militare e l’artista si fa più serrato – è davvero di grande carica emotiva e coinvolgimento; con il maggiore che, come ha sottolineato Harwood nella conferenza stampa, è l’unico che parla di morti mentre gli altri parlano di arte.
C’è, a nostro avviso, anche un’altra domanda da porsi: è giusta un’indagine (come quella condotta dal maggiore Arnold) da parte del “potere vincitore”? O non è quello che si sta esprimendo l’ennesimo attacco all’arte, alla musica?
Si esce dal teatro con tanti interrogativi ma con la piena convinzione di aver assistito ad una rappresentazione magistrale.
Claudio Costantino