“Oscura immensità”. La recensione
In scena al Teatro Eliseo fino al 30 marzo 2014
Si sente la mano del regista Alessandro Gassman nella messa in scena di “Oscura immensità”, in cartellone al Teatro Eliseo fino al 30 marzo 2014. C’è infatti un certo gusto cinematografico trasportato in teatro, con gli interventi videografici (di Marco Schiavoni) sul velo di tulle che separa dalla platea, con il disegno pittorico degli ambienti scenici attraverso le luci, anzi i chiaroscuri (scene di Gianluca Amodio, luci di Pasquale Mari).
Il lavoro è tratto dal libro di Massimo Carlotto, “L’oscura immensità della morte”. L’antefatto: nel corso di una rapina, due malviventi prendono in ostaggio una donna e il figlio di otto anni e li uccidono. L’uomo, Raffaello Beggiato (Claudio Casadio), viene condannato all’ergastolo, mentre il suo complice riesce a fuggire. Il marito della donna assassinata e padre del bambino, Stefano Contin (Giulio Scarpati), non si dà pace. Per quindici anni vive con l’ossessione di quella che lui chiama “l’oscura immensità della morte”, quando un giorno gli arrivano le lettere dell’avvocato e dell’ergastolano (a cui è stato diagnosticato un male incurabile) che chiedono il suo perdono per ottenere la grazia…
Il lavoro parte da qui, dalla lettura delle missive. I due protagonisti sono bravissimi e danno vita con estrema accuratezza ai loro personaggi, con una precisione per i dettagli. Come quello, ad esempio, del tremolio nervoso della gamba del personaggio interpretato da Scarpati quando legge le lettere.
Sono tutti e due, di fatto, prigionieri per il duplice omicidio; hanno cessato di vivere nel momento in cui è stato commesso il crimine. L’uno, privato degli affetti, si rinchiude nel dolore, con la vita che non ha più sapore. L’altro è in prigione, con il cancro che avanza ma che non vuole curare perché è l’unica arma che ha per uscire in libertà. Ma dov’è la libertà?
È un testo profondo, che fa riflettere, che colpisce in profondità gli spettatori che si interrogano su giustizia, perdono, sanzione, vendetta. Si riflette sulla “pena”, nella duplice accezione del termine, di “punizione” e di “pietas”, senza trovare una risposta univoca; che non può esserci perché l’oscura immensità del dolore non dà scampo.
È difficile e tormentoso per le coscienze questo lavoro che sa magistralmente descrivere il dramma fisico e psichico dei protagonisti, raccontati dai due in forma di monologhi alternati. Non è un testo di dialoghi ma rappresentazione di un flusso di pensieri e di emozioni che circumnavigano il buio, quell’oscura immensità che ha inghiottito le vite degli scomparsi ma pure quella dei sopravvissuti.
Il riscatto può esserci? Probabilmente no, lascia intendere questo testo. Sono tutti e due vittime e carnefici, dietro le sbarre della sofferenza.
Brunella Brienza