A distanza di una settimana dal concerto dei Rolling Stones al Circo Massimo di Roma del 22 giugno 2014, ripenso a quanto sia emozionante, divertente, elettrizzante vederli in azione sul palco, a quanto sia importante esserci in quel momento e avere la sensazione di condividere insieme ad un oceano di gente un modo di essere, di sentire e di pensare, e qualcosa che ormai è patrimonio di tutti e che forse non morirà finché esisterà il nostro pianeta. E mi rendo che quanto appena espresso è in parte condizionato dalla mia passione viscerale nei confronti della loro musica, dei loro personaggi e della loro faccia tosta.
Ma poi, come avviene ormai da anni, il mio lato critico, studioso e analitico ammansisce la pancia, il sangue e i nervi, alla ricerca di un maggiore distacco e una sufficiente obiettività nel valutare un fenomeno che al contrario difficilmente viene affrontato con equilibrio, misura e correttezza, sia da parte degli appassionati che da parte dei giornalisti/critici/musicologi più autorevoli.
E allora la domanda centrale che dovrebbe essere affrontata per prima, prima ancora di descrivere i gesti e le gesta eroiche dei vecchietti rotolanti, e prima di sottolineare la loro sorprendente energia e longevità e la loro innegabile simpatia e ruffianeria, è la seguente: in base a quali parametri una band meriterebbe di essere considerata come “the greatest rock ‘n’ roll band in all the world ever”?
Se ciò avvenisse soltanto in base ai numeri, ai consensi e alle vendite, il discorso non quadrerebbe, perché la storia insegna che il riscontro commerciale non coincide necessariamente con la qualità artistica. E nel nostro caso parliamo di un fenomeno che nel corso dei decenni ha messo ormai d’accordo quasi tutti, conformisti e anticonformisti, conservatori nostalgici e aspiranti innovatori, vecchi e giovani, “insider” e outsider, rockettari, punk, post-punk, metallari, discotecari e canzonettari.
Alcuni dissentono e protestano, ma fanno comunque parte di un’esigua minoranza, e anche chi non è coinvolto direttamente nei meccanismi del mainstream, o semplicemente detesta la band per un puro spirito di contraddizione privo di senso critico, spesso non contesta comunque il fatto che i Rolling Stones siano ormai diventati, a torto o a ragione, i padroni assoluti del mondo della musica rock.
E allora alcune ipotesi riguardo ai motivi di questi quasi unanimi consensi potrebbero essere le seguenti: 1) o la “grandezza” dei Rolling Stones è diventata una sorta di dogma sacro, intoccabile, che quasi nessuno mette in discussione perché viene dato per certo e tacitamente accettato, senza lo sviluppo di alcuna riflessione, elaborazione e opinione personale di base; 2) o gli ascoltatori – e non solo quelli medi, perché in mezzo ci sono anche centinaia di migliaia di esperti, o presunti tali, del settore – chiudono per pura fede e affetto un occhio e un orecchio, se non tutti e due, di fronte anche agli errori più clamorosi; 3) o chi anche avesse dei dubbi o un atteggiamento di rifiuto sulla legittimità del predominio degli Stones non li esprime perché si collocherebbe in una posizione scomoda e impopolare che scatenerebbe enormi ostilità; 4) oppure, ancora, anche gli specialisti di musica più fini non sono di fatto né così esperti né così fini, perché quando parlano dei Rolling Stones lo fanno senza obiettività, e senza accorgersi, oltre alla simpatia, alla grinta, all’innegabile originalità e al grande affetto che si può trovare in loro, anche dei limiti e delle spesso evidenti e sostanziali carenze.
E se si parla di Stones non si può non considerare il fatto che come musicisti, presi singolarmente, sono piuttosto mediocri, affermazione ribadita molto spesso dallo stesso Keith Richards, che è tutto dire. E basta avere un minimo di orecchio musicale per accorgersi delle defaillance e delle rilevanti imprecisioni commesse da Richards il quale, nonostante il fatto che quando mette le mani sulla chitarra tira fuori un suono incredibile e unico e che spesso elabora dei fraseggi a dir poco entusiasmanti e riconoscibili tra mille, non di rado cade rovinosamente, commettendo errori piuttosto grossolani, ormai anche a causa di alcuni evidenti vuoti di memoria e di un’artrosi alle dita. In più, è sufficiente avere un primordiale senso del ritmo per notare quanto lo stile di Charlie Watts, nonostante sia considerato un punto di riferimento da parte dei più grandi batteristi del mondo (anche se forse molti di loro si riferiscono al suo suono, che effettivamente è bellissimo e curatissimo, più che alle sue scarsissime capacità strumentali), sia sgangherato, e totalmente inefficiente e privo di solidità, tendendo quando a rallentare quando a velocizzare l’andamento ritmico, e combinando dei totali disastri ad ogni fill, dove spesso si perde, sbanda e rientra fuori tempo. È ormai classica l’immagine, che non è mancata neanche ad un certo punto del concerto di Roma, di Keith Richards che si dirige verso Watts, di spalle al pubblico e gli dà il tempo. Un chitarrista che dà il tempo alla sezione ritmica! Una cosa inaudita, contro natura! Raramente ad un concerto si è visto qualcosa di più improbabile e comico, eppure in questo caso è la consuetudine. Ma Watts negli Stones va comunque benissimo, ciò è appurato, perché in gran parte il loro stile inimitabile si è costruito grazie alle sue carenze, e una sezione ritmica solida e quadrata romperebbe certamente il sottile equilibrio e la fitta ma delicata tessitura che riescono a costruire le due chitarre con un certosino e raffinato lavoro di infiorettatura e di cesello. E poi c’è Jagger, che fisicamente pare avere fatto il patto col diavolo, ma che obiettivamente ha da sempre una voce bruttarella e sgraziata, e nemmeno troppo potente.
Però i quattro Stones più tutti gli altri ottimi musicisti che li accompagnano riescono a creare insieme un amalgama che è una bomba atomica, un suono seducente, un sapore irresistibile, trasformando i propri vizi e i propri limiti in virtù, certo, questo è fuori discussione.
Ma come mai tutte le altre rock band, e ce ne sono molte, che hanno una storia quarantennale alle spalle e che comprendono dei musicisti di altissimo livello e certamente molto più bravi, preparati ed esperti di loro non sono presi in alcun modo in considerazione da nessuno per una meritata candidatura a raggiungere almeno il secondo posto di “greatest rock ‘n’ roll band”?
In più si continua a rimarcare la loro età avanzata. Certamente è impressionante vedere la loro energia, e senza dubbio questo è un aspetto rilevante in una valutazione complessiva da dare su di loro, e invecchiare e continuare a rimanere efficienti e prestanti come riescono ancora a fare loro è una grandissima nota di merito, una dimostrazione di forza, di tenacia, di coraggio.
Ma poi, in tutto questo, spesso tutti, me compreso, ci dimentichiamo che in definitiva stiamo parlando di musica, e che quindi andrebbe valutata anche e prima di tutto quella. E dovremmo quindi chiederci se effettivamente ciò che gli Stones continuano ad offrire, a parte l’enorme valore simbolico e iconografico che un loro concerto assume inevitabilmente, abbia effettivamente ancora un valore artistico e di qualità, e se anche prima ce l’aveva, e quanto, e in che modo, e perché.
29 giugno 2014
Gianmaria Consiglio (*)
(*) musicologo, saggista, critico musicale e musicista; tra l’altro è autore del libro “Il Balletto di Bronzo e l’idea del delirio organizzato”