Sala Umberto: viaggio nella cattiva coscienza di una famiglia e di un popolo

foto E.Gallina

“La bastarda di Istanbul”. La recensione della prima del 15 marzo 2018.
In scena al Teatro Sala Umberto fino al 25 marzo 2018.

Debutto sold out per una delle rappresentazioni più attese a Roma, “La bastarda di Instanbul”, in scena al Teatro Sala Umberto fino al 25 marzo. Pièce pluripremiata dalla critica e dal pubblico, deve molto del suo successo, oltre che all’indiscussa bravura degli attori, alla stesura personalissima del testo ed alla regia di Angelo Savelli, all’allestimento scenico (con video-scenografie) di Giuseppe Ragazzini. Savelli è andato al di là del romanzo di Elif Shafak (una delle più celebri scrittrici contemporanee della Turchia), estrapolando e valorizzando alcuni aspetti di esso.

Savelli, dal complesso romanzo, pone in evidenza una famiglia matriarcale turca (Kazanci) che ruota attorno all’unico maschio di casa, Mustafa (Riccardo Naldini). Tutti gli altri sono donne: la vecchia madre Gulsum (Marcella Ermini), le sue quattro figlie (sorelle di Mustafa), ovvero la chiaroveggente Banu (Serra Ylmaz con i capelli corti blu elettrico), Cevriye (Fiorella Sciarretta), Feride (Monica Bauco), la tatuista Zeliha (Valentina Chico) che è anche madre di una figlia illegittima, Asya (Diletta Oculisti), la bastarda. Mustafa poi si trasferisce negli Stati Uniti e sposa l’americana Rose (interpretata sempre da Monica Bauco che porta in scena due personaggi); Rose in precedenza era stata unita con l’armeno Barsam da cui aveva avuto una figlia  Amy (Elisa Vitiello) – di cui Mustafa, dunque, diventa il patrigno – che sente fortemente le sue radici armene.

Le video-scenografie tridimensionali arredano, integrano, arricchiscono il racconto, indugiano sui particolari: il gatto alla finestra che guarda fuori e muove la coda; oppure il colloquio di Amy ed Asya con gli avventori di un pub che sono disegni animati.

Emergono le qualità attoriali. C’è un cast di spessore a portare in scena un’opera teatrale che ha uno stile narrativo e letterario in cui più che i dialoghi contano le illustrazioni individuali (lunghi monologhi) dei vari protagonisti che parlano di loro in terza persona. Emerge così un affresco corale sulla società turca, sulla condizione delle donne ad Istanbul e si affronta anche il dramma del genocidio degli armeni. Ma ci sono anche segreti personali, buchi neri inesplorati.

L’opera sa essere divertente, ironica ma anche profondamente drammatica quando affronta le tragedie collettive (degli armeni), ed individuali (dei singoli personaggi). Diventa – come sottolinea il regista – il viaggio teatrale nella cattiva coscienza di una famiglia e di un popolo.

Claudio Costantino

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