“Il principio di Archimede”. La recensione.
In scena al Teatro Spazio Diamante fino al 17 marzo 2019.
Il principio di Archimede afferma che un corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso verso l’alto…
C’è anche una spinta emozionale, dal basso verso l’alto, che parte dalle viscere fino a giungere al cervello, finendo per annebbiarlo ed offuscarlo, preda di una rabbia sorda: è questo che racconta la rappresentazione “Il principio di Archimede”, scritta dal drammaturgo catalano Josep Maria Mirò, tradotta e diretta da Angelo Savelli (di cui è stato molto apprezzato, tra l’altro, il lavoro “La bastarda di Istanbul”). Quello proposto ora è un testo di successo, già andato in palcoscenico in una ventina di Paesi ed ora anche in Italia. È in scena al Teatro Spazio Diamante di Roma Prenestina fino al 17 marzo 2019 (dal giovedì al sabato), con la prima del 7 marzo sold out.
Siamo in uno spogliatoio di una piscina, nell’intervallo tra i corsi di nuoto, di bambini e ragazzi, della mattina e quelli del pomeriggio. Un istruttore sembra che abbia dato un bacio sulle labbra ad un bambino, almeno così dice una bambina. È vero o no? C’è stato o meno un episodio di pedofilia?
Il racconto teatrale non è temporale; come se si avvolgesse il nastro della vita si va avanti e indietro nella narrazione. E così ci accorgiamo che la conoscenza parziale dei fatti può portare a conclusioni improprie.
L’accusa espressa da un genitore – vera o non vera – diventa un detonatore sui social media; in un gruppo chiuso i genitori dei giovani nuotatori processano senza appello e condannano l’istruttore con un semplice clic.
Mirò si interroga e fa riflettere la platea sul ruolo che hanno acquisito i social media, su come noi tutti ci informiamo, ci facciamo un giudizio sui fatti della vita; fa meditare anche sulla rabbia che sempre più emerge su Facebook, What’sApp o quello che è.
Una volta, rispetto a un reato, a gravi episodi, l’innocenza non era messa in discussione fino alla condanna; ora, di fatto, si è ribaltato il quadro probatorio: è l’accusato a dover provare la sua innocenza, cosa sempre più difficile perché la macchina del fango parte subito, dal basso verso l’alto, e può crocifiggere istantaneamente, sulla scorta di informazioni parziali, frammentate, distorte, sulla base di pulsioni, emozioni, collera…
Molto efficace e di effetto la messa in scena in un teatro come lo Spazio Diamante, che è congeniale, con l’area dell’azione al centro e la platea sui due lati. Le luci rimangono accese ed i volti degli spettatori del lato opposto al nostro, sono visibili, così come le loro emozioni; e loro dalle file opposte, d’altro canto, possono leggere i nostri turbamenti. Il teatro diventa così un’agorà, con la platea, pienamente coinvolta, che è parte in causa del dramma, anche se la quarta parete non viene mai oltrepassata.
Straordinariamente bravi i protagonisti – Giulio Maria Corso, Monica Bauco, Riccardo Naldini, Samuele Picchi -. La rappresentazione si regge sulla loro recitazione intensa e ritmata; una prova attoriale ancor più difficile con la narrazione che va avanti e indietro nel tempo.
Merita una sottolineatura particolare l’attenta e coinvolgente regia. Savelli, nel rispetto del testo, ha fatto qualche efficace aggiustamento. Ha modificato, ad esempio, il finale, concludendo con ancor più pathos, facendo emergere tutta la drammaticità e l’assurdità della situazione che si viene a creare per le dichiarazioni calunniose che distruggono la reputazione, quelle sì da condannare.
Claudio Costantino