Intervista a Innocenzo Alfano autore di “Storie di Rock” (Aracne) a cura di Gianmaria Consiglio, autore dal canto suo del libro “Il Balletto di Bronzo e l’idea del delirio organizzato” (EclYsse Editore). Alfano tra l’altro ha pubblicato i volumi “Il caso del rock progressivo” (2004), “Verso un’altra realtà” (2006), “Effetto Pop” (2008).
Una chiacchierata con Innocenzo Alfano è sempre un’occasione di grande arricchimento, e ciò che segue è la naturale evoluzione di una lunga telefonata intercorsa tra l’intervistatore e l’autore dell’interessantissimo saggio intitolato “Storie di Rock – Gli anni Sessanta e Settanta attraverso dischi, festival, libri, luoghi, suoni e molte curiosità” edito da Aracne editrice lo scorso dicembre. Ciò che colpisce maggiormente del pensiero di Alfano è la solidità delle sue posizioni, oltre che dei racconti di suggestive vicende di artisti e album ingiustamente e immotivatamente sottovalutati, se non addirittura stroncati, generi musicali e festival legati ad uno dei periodi più fecondi e affascinanti della popular music, quello sviluppatosi tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta. Una solidità che scaturisce da un costante studio della teoria e della pratica musicale, da uno spirito di riflessione e di approfondimento purtroppo molto raro nella critica musicale, da una competenza e una conoscenza insolite della storia della materia trattata, e da un’integrità tale che porta Alfano a motivare sempre il suo punto di vista, con argomentazioni dal suo punto di vista inattaccabili. Ciò diventa uno stimolo, per il lettore che vuole andare al di là dei luoghi comuni, per consolidare le proprie posizioni con delle motivazioni valide, quando non coincidono con quelle dell’autore, oppure per rivedere completamente le proprie convinzioni, imparando ad articolare un pensiero che non sia legato a priori a delle ottuse ideologie purtroppo tipiche di questa materia, quelle che Alfano critica aspramente con posizioni scomode quanto pericolose per tutti quegli studiosi, troppi, che non sono soliti utilizzare il metodo, che non hanno gli strumenti adatti per parlare di musica, e che perciò, per dirla con l’autore, o ne parlano male, scambiando un tempo composto per un tempo irregolare, o si limitano a parlare solo “intorno alla musica”, di gossip, aneddoti e di quantità. Una quantità di album, artisti, date, libri, generi musicali, senza spiegare al lettore effettivamente di che si tratta, e facendo perciò una cattiva diffusione. Ciò che conta per Alfano è lo stimolo, e perché no, anche la provocazione, al fine di spronare sempre il lettore ad una riflessione, una riflessione mai fine a se stessa. (G. C.)
Cominciamo dalla questione principale, la più ovvia ma anche la più complicata da definire: che cos’è per te la musica?
Nessuna complicazione. Magari un tedesco risponderebbe a questa domanda con un saggio di filosofia, ma per me la musica è, in termini soggettivi, semplicemente una bella passione, che mi permette di socializzare e nello stesso tempo di dedicarmi ad un’attività di elevato contenuto culturale.
Sfogliando un saggio molto interessante e approfondito di Stefano Zenni risalente a qualche anno fa e intitolato “I segreti del Jazz” (stampa alternativa/nuovi equilibri, Viterbo, 2007), a pag. 163 l’autore tenta di delimitare il confine tra la fase della composizione e quella dell’esecuzione di un brano musicale non scritto su pentagramma, riuscendo, a mio avviso, a risolvere in maniera più morbida una questione che nei tuoi saggi musicali, compreso “Storie di Rock”, probabilmente rimane aperta. In particolare mi pare significativo questo passaggio, che potrebbe valere anche per la musica rock: “… il compositore jazz non ‘prescrive’ ciò che va suonato ma lo ‘descrive’, spesso in modo sommario… non definisce il testo in ogni dettaglio ma ne delinea gli elementi essenziali, che vengono pienamente realizzati solo all’atto dell’esecuzione”. Probabilmente, in quest’ottica, bisognerebbe riconsiderare l’atto compositivo nella popular music come qualcosa di diverso rispetto alla musica classica della tradizione “colta”. Che ne pensi?
Non so chi sia Stefano Zenni, per cui ho cercato in rete notizie su di lui e mi sono imbattuto in una intervista la cui ultima domanda (dell’intervistatore) era la seguente: “Dal punto di vista didattico, specie per chi si avvicinasse digiuno da nozioni e per le nuove generazioni che hanno con la ‘conoscenza’ un rapporto molto differente da quello dei loro fratelli maggiori, quali punti di approccio alla storia del jazz suggerisci?”. Bene, la risposta di Zenni è stata: “Ascoltare, ascoltare, ascoltare…” (riferimento qui, ndr). Considero sbagliato questo tipo di risposta, perché la “conoscenza” dei fenomeni musicali non può avvenire attraverso l’ascolto, o solo attraverso l’ascolto, ma studiando e imparando il linguaggio proprio di quei fenomeni, il che implica, in modo particolare, imparare a suonare uno o più strumenti musicali, oltre che – preliminarmente – il solfeggio e la teoria musicale, senza tralasciare problemi quali l’armonia e la storia della musica. Solo una volta fatto tutto questo una persona “digiuna da nozioni” sarà in grado di capire un linguaggio come quello musicale altrimenti – come qualsiasi nuovo linguaggio – incomprensibile. Per quanto riguarda lo specifico della tua domanda, devo dire che non mi sembra una grande scoperta affermare che la composizione nella musica rock e jazz sia una cosa diversa rispetto alla tradizione colta. C’è forse qualcuno che pensa che siano identiche o simili? Ciò che volevo dimostrare nei miei libri, per quel che concerne la musica rock, è invece che tutti i componenti di una band sono compositori, naturalmente a vari livelli e con diversi gradi di responsabilità. Insomma, il compositore di un pezzo rock di solito non è quello che lo registra alla Siae (solo perché lo ho registrato alla Siae) o quello che, per qualche ragione, fa scrivere il proprio nome sotto al titolo del brano. Il lavoro di composizione, nel rock, per come la vedo io, è collegiale. (parte 2 qui)
a cura di Gianmaria Consiglio