Intervista a Innocenzo Alfano parte terza
Sarebbe altresì interessante conoscere il tuo parere su Brian Auger – uno di più grandi organisti viventi, se non il più grande – e in particolare sulla personalissima operazione di ibridazione di elementi blues, jazz, soul e funky che mise in atto a partire dalla seconda metà degli anni ’60 in poi, prima con Julie Driscoll e i Trinity e poi con gli Oblivion Express.
Sì, senz’altro uno dei più grandi organisti Hammond di sempre. Ma purtroppo, come cerco di mettere in evidenza ogni volta che ne ho la possibilità, nel rock i musicisti bravi non sempre vengono apprezzati, in particolare da una parte della cosiddetta “critica specializzata”. Se poi sono bravissimi, tipo Brian Auger, Keith Emerson, Rick Wakeman, John McLaughlin ed altri, rischiano addirittura il linciaggio!
Il progressive è unanimemente considerato un fenomeno europeo, eppure anche negli Stati Uniti, dalla metà degli anni ’70 in poi, si è sviluppato un fenomeno analogo, seppure influenzato maggiormente dall’hard rock. I primi nomi che mi vengono in mente sono i Kansas e soprattutto i Rush. Come definiresti questo filone del rock statunitense che è stato troppo spesso liquidato frettolosamente e con sufficienza anche dalla critica musicale più specializzata?
Ecco, appunto: la “critica musicale più specializzata”. Ma “specializzata” in che cosa? Tieni conto che la quasi totalità dei giornalisti musicali, in particolare in Italia, non sa nulla di musica. L’ho capito leggendo i libri e gli articoli di tutti i più “importanti” nomi del settore e dopo che io, la musica, l’avevo invece imparata. Perciò ormai diffido delle “analisi” di certa gente. Per quanto riguarda il problema “Stati Uniti e progressive rock” penso che tu abbia ragione, nel senso che i gruppi che tu citi debbano essere inseriti nel filone progressive, nonostante le influenze hard. Non posso tuttavia essere più preciso su questo argomento perché conosco poco sia i Rush sia i Kansas. Ad ogni modo mi pare che nella loro musica siano presenti tutti gli elementi – o almeno quelli principali – che hanno caratterizzato la produzione discografica delle formazioni britanniche della prima metà degli anni ’70. Non saprei dirti tuttavia se con esiti altrettanto memorabili. A proposito di Stati Uniti, credo che abbiamo dimenticato il nome più importante di tutti: Frank Zappa, forse il primo musicista rock americano a sperimentare a 360 gradi e con esiti degni di nota già sul finire degli anni Sessanta. Il guaio, comunque, è che con le etichette si rischia sempre di fare confusione, perciò secondo me meno si usano (se possibile) e meglio è.
Nel tuo ultimo saggio racconti in un delizioso paragrafo (“Suonare suonare… con la banda musicale”, pp. 191/195) della tua esperienza di clarinettista nella Banda Musicale San Leone di Saracena. È evidente, considerato il contesto nel quale queste poche pagine sono inserite, che il tuo racconto è solo un pretesto per aprire una finestra sul percorso musicale che poi ti ha portato a diventare musicologo e saggista, e anche per partire da una premessa a te molto cara, ovvero che per parlare in maniera sensata e consapevole di musica è necessario…
Non mi definirei un musicologo (termine troppo impegnativo e accademico), ma uno a cui piace la musica, così tanto da praticarla e scriverci dei libri. E poi ho anche altri interessi, oltre alla musica.Dunque, per parlare di musica in maniera sensata e consapevole è necessario… sapere che cos’è, e per sapere che cos’è bisogna studiare e suonare. Verità tanto banale quanto sconosciuta nel panorama rock, soprattutto in quello italiano, dove il primo che arriva si sente autorizzato, pur non avendo alcuna competenza, a scrivere “saggi” e a stilare “analisi”, con tutti i danni e gli orrori – alcuni dei quali, ormai, credo irreparabili – che ne derivano. Io, prima di iniziare a scrivere il mio primo libro di musica, a 32 anni, sai che cosa ho dovuto fare? Ho dovuto imparare la musica! Questo significa imparare a suonare uno strumento musicale (ne ho imparati due: clarinetto e chitarra classica), imparare naturalmente a leggerla, la musica, ma anche studiare la teoria musicale e la storia della musica, ed inoltre analizzare dall’inizio alla fine un intero manuale di armonia, suonando il maggior numero possibile di esempi musicali in esso contenuti. Si tratta di un tipo di lavoro “preparatorio” che, come capirai bene, non dura un giorno o una settimana. Mi mancano purtroppo studi seri sull’armonia jazz (che però penso sia molto meno complicata di quello che sembra), e infatti, fino a quando non decido di studiarmela come si deve, non sarò in grado di scrivere libri o saggi sul jazz, e non mi azzardo a farlo. Scrivere libri di musica, anche di musica rock, è una faccenda piuttosto complessa, che non può essere improvvisata lì per lì, su due piedi, dalla sera alla mattina. Ma vallo a spiegare ai rappresentanti della critica specializzata…
Nel grande calderone degli “esperti musicali” che oscillano tra il prototipo del fan invasato che non sa nemmeno di cosa parla, e lo studioso esperto, scrupoloso e competente, chi secondo te può essere considerato in Italia una voce autorevole e un saldo punto di riferimento?
In Italia, nessuno, riferendoci al rock. Non vedo studiosi in giro, ma solo fan. (parte quarta qui)
a cura di Gianmaria Consiglio