“Quando arriva?”. La recensione
In scena al Teatro Studio Uno fino al 6 novembre 2016
Teatro Studio Uno (a via Carlo Della Rocca, zona Tor Pignattara): ci piace questo spazio di periferia, avamposto della cultura e dell’accoglienza. Entrando, si viene catapultati negli anni Settanta. Nel foyer macchine da scrivere, giornali, libri, vinili… tutto riporta indietro nel tempo. Non mancano poi vino e noci per accogliere gli spettatori.
In questo luogo senza tempo, Ludovica Bei – giovane e promettente autrice, regista ed attrice – è di casa. Qui sono emersi talento e creatività; qui torna volentieri a sperimentare e caratterizzare il suo registro scenico (sarà di nuovo a TS1 con “Shhhhh!” dal 26 gennaio 2017, ndr). I suoi testi teatrali hanno la caratteristica di scavare nell’Io, nell’interiorità dei personaggi, siano loro nello spazio limitato di un WC ( in “Occupato”), siano loro in strada, come nella presente rappresentazione “Quando arriva?”.
Ci piace TS1 anche per la particolarità di avere (nella “Sala Specchi”) l’arena incastonata al centro della platea, con spettatori avanti e dietro. In questo modo la sala regia dove opera Ludovica Bei – per una parte del pubblico – non è, come consuetudine alle spalle ma davanti. E vedere lei all’opera, cogliere il suo totale coinvolgimento emotivo, impreziosisce la rappresentazione. Ogni battuta, ogni movimento hanno riflessi nei suoi occhi.
La storia di “Quando arriva?” è ambientata poco distante da questo teatro, all’incrocio tra via Casilina e via di Torpignattara, davanti ad un kebab (che nella realtà esiste davvero, poco distante dal suddetto incrocio in piazza della Marranella). A richiamarlo nell’arena solo un’insegna luminosa, ma basta questa per farci tuffare nell’ atmosfera… siamo in una zona anonima e popolare, con l’odore di olio fritto nelle narici dove Mario (Simone Giacinti) attende l’arrivo di Gino (Andrea Standardi).
Inizialmente la rappresentazione ha toni beckettiani, per quella che appare l’attesa di Godot, di cui tanto si parla ma che non arriva mai. Mario ad un tratto si punta una rivoltella alla tempia…
Godot- Gino finalmente arriva ( o forse non è mai arrivato e tutto si svolge nella mente di Mario). E qui, al cronista viene alla mente “Il settimo sigillo” di Bergman con la partita a scacchi con la morte.
Il cuore della rappresentazione è il dialogo e l’azione concitata tra i due personaggi, che non mancano di attraversare la terza e quarta parete coinvolgendo gli spettatori come se fossero passanti in strada. Ci sono degli orologi appesi che segnano l’ora 7.04, con le lancette ferme come se il tempo si fosse fermato (forse un omaggio dell’autrice al Bergman de “Il posto delle fragole”, con gli orologi senza lancette).
Non raccontiamo, ovviamente, il finale – che è quasi catartico – in cui Gino si rivela.
Molto bravi Giacinti e Standardi nel proporre due personaggi complessi e sfaccettati – l’ansioso e l’enigmatico – in un testo in cui conta l’azione ma che deve far emergere le agitazioni interiori. Bravi anche nel non facile compito di recitare con il pubblico seduto tra gli attori.
Claudio Costantino