“Vincent Van Gogh. Le lettere a Theo”. La recensione
In scena al Teatro Brancaccino fino al 23 febbraio 2020 (da giovedì a domenica)
Intensa interpretazione di Blas Roca Rey che “ritrae” il pittore Van Gogh in tutta la sua complessità. Lo fa in “Vincent Van Gogh – Le lettere a Theo” – in scena al Teatro Brancaccino fino al 23 febbraio (da giovedì a domenica).
Partendo dalle lettere di Vincent al fratello, Roca Rey fa emergere, con eccezionale capacità attoriale, tutte le inquietudini, la tensione morale, le preoccupazioni materiali (che non scalfiscono il bisogno di esprimersi attraverso l’arte) del grandissimo pittore.
Theo, mercante d’arte, fu il primo a riconoscere il talento di Vincent, che compì, nella sua arte, una svolta grazie agli Impressionisti, ma che da loro si discostò, precorrendo l’Espressionismo.
Spesso nelle sue lettere Van Gogh chiedeva al fratello Theo un sostegno economico per la sopravvivenza, per l’acquisto di tele e colori. E lo immaginiamo nel suo studio, immerso tra quadri bellissimi ma invenduti, con la certezza però che, prima o poi, avrebbe ripagato, con il suo successo, i tanti sacrifici economici fatti da Theo.
Intanto avanzava il male oscuro, quella follia che lo porterà anche ad un periodo in manicomio, da cui uscirà “guarito”. Guarito?
Tra l’altro attenterà alla vita del pittore Gauguin, si taglierà un orecchio. E il 27 luglio 1890 si sparerà un colpo di rivoltella in petto, in preda a quella totale, assurda malattia interiore. La sua consacrazione artistica avverrà dopo la morte.
In alcuni passaggi delle sue lettere – sottolineati dall’attore, che ha curato anche l’adattamento del testo teatrale – ci sono vere e proprie lezioni d’arte, come quella sul quadro “I mangiatori di patate” in cui ritrae i contadini senza suggestioni letterarie, senza abbellimenti e nostalgie, nella loro “verità”.
“Un contadino è più vero – spiegava in una lettera – coi suoi abiti di fustagno tra i campi, che quando va a Messa la domenica con una sorta di abito da società… Se un quadro di contadini sa di pancetta, fumo, vapori che si levano dalle patate bollenti, va bene, non è malsano”.
La “tempesta” di colori-inquietudini vengono proiettate a volte alle spalle dell’attore, da solo sul palco, accompagnato dal maestro Luciano Tristaino al flauto (che sottolinea o introduce incisavemnte alcuni passaggi narrativi).
L’interpretazione coinvolge completamente gli spettatori, letteralmente conquistati dal trasporto dell’attore. L’applauso, intenso, caloroso e prolungato arriva solo alla conclusione. Forse con qualche attimo di ritardo perché, sia l’interprete sia la platea, fanno fatica a distaccarsi da quel racconto che ha completamente assorbito, da quell’artista che tutto ha sacrificato per il sacro fuoco dell’arte.
Brunella Brienza